Negli ultimi anni si sono moltiplicati i casi di preservazione della fertilità in giovani donne, soprattutto prima dell’esposizione a terapie tossiche per le gonadi, tipiche dei trattamenti antineoplastici. I crescenti successi delle tecniche di preservazione della fertilità, attraverso il congelamento di tessuto ovarico o di ovociti maturi, hanno promosso la strategia di preservazione anche in altre categorie di pazienti a rischio di compromissione della funzionalità ovarica per patologia benigna o danno iatrogeno. Tra queste pazienti rientrano le donne affette da endometriosi. È noto, infatti, che l’endometriosi comporti sterilità e perdita prematura della riserva ovarica in una percentuale consistente di donne colpite da questa condizione. In quanto patologia cronica è, altresì, frequente la comparsa di recidive dopo i trattamenti chirurgici. Le giovani donne affette da endometriosi sono, pertanto, potenzialmente candidabili ai programmi di preservazione della fertilità. Tuttavia, considerando l’elevata incidenza della patologia tra tutte le donne in età riproduttiva (10-15%) è doveroso limitare l’indicazione ad eventuali gruppi di donne che potrebbero beneficiare significativamente del programma, stimando le analisi favorevoli che ne correggono il giudizio in relazione ai costi ed agli sforzi organizzativi.
L’esaurimento precoce della riserva follicolare legata all’endometriosi è principalmente dovuto alle tecniche di escissione delle cisti endometriosiche in sede ovarica. Benché sia stato a lungo oggetto di dibattito, è ormai accertato che l’asportazione di cisti ovariche tramite stripping (strappo) laparoscopico comporta anche la perdita di tessuto sano, causando una riduzione dei livelli di ormone anti-mulleriano e del numero di follicoli primordiali ovarici, che rappresentano la riserva della fertilità femminile. Infatti, da varie evidenze scientifiche riportate, si evince che nel caso di una stimolazione ormonale della crescita follicolare per fecondazione in vitro, sull’ovaio operato per cisti endometriosica, in genere, si sviluppa un numero di follicoli molto ridotto rispetto all’ovaio controlaterale non operato. Inoltre, le donne sottoposte ad intervento su entrambe le ovaie mostrano un’età di comparsa della menopausa significativamente più precoce rispetto a quella dei casi controllo.
Pur non essendo ancora del tutto dimostrato, oltre al danno chirurgico la presenza di endometriomi rappresenterebbe un fattore di riduzione della qualità e della quantità di ovociti disponibili nell’ovaio affetto e questo potrebbe essere determinato sia dall’effetto meccanico di stiramento del tessuto sano indotto dal volume della cisti endometriosica, sia dal rilascio di sostanze potenzialmente tossiche da parte della cisti verso gli ovociti circostanti.
L’esperienza di preservazione della fertilità in donne affette da endometriosi, nonostante la presenza di un razionale interessante, è ancora molto limitata. Sono state utilizzate entrambe le principali strategie disponibili, cioè sia il congelamento di ovociti maturi dopo stimolazione ovarica, sia il congelamento di tessuto ovarico, ma il numero di pazienti trattate ed il periodo di controllo, ancora troppo breve, non permettono di raccogliere sufficienti dati sull’efficacia delle metodiche in questo particolare gruppo di pazienti. È lecito utilizzare le conoscenze derivanti dagli ambiti più tradizionali della medicina della riproduzione per sviluppare un possibile approccio al problema; certamente l’efficacia di un programma di preservazione della fertilità dipende dal numero di gameti disponibili e dall’età della paziente al momento della crioconservazione. Nel caso specifico, le condizioni cliniche dei singoli soggetti determinano l’opportunità di ricorrere al programma di preservazione della fertilità. Risulta, infatti, utile selezionare le categorie particolarmente a rischio di infertilità che potranno con maggiore probabilità beneficiare dei gameti crioconservati. Al contrario, le donne affette da endometriosi, ma con almeno un ovaio integro, senza cisti endometriosiche, hanno maggiore probabilità di mantenere un potenziale riproduttivo adeguato, rendendo meno utile il programma di crioconservazione. Situazioni intermedie devono essere valutate considerando il rischio di perdita di tessuto ovarico sano e la possibilità di ricorrere effettivamente al materiale crioconservato.
In conclusione, non esistono ancora sufficienti evidenze per supportare l’applicazione delle tecniche di preservazione della fertilità a tutte le donne in età riproduttiva affette da endometriosi. Si tratta, tuttavia, di un campo di grande interesse ed in rapida espansione, che nei prossimi anni fornirà elementi molto utili agli specialisti della patologia della riproduzione (endocrinologi e ginecologi), al fine di stabilire l’efficacia di tali tecniche nelle diverse tipologie di pazienti.